Entrando tra le calde pareti del Civico14, lo sguardo viene colpito da una scenografia minimalista al cui centro troneggia una catena. Sarà quella stessa catena, di lì a poco, a legare lo Iago di Lorenzo Berti, condotto di fronte al Doge per rendere conto dei suoi crimini. Legato al pavimento, alla sua rete di inganni, al suo destino di tortura e alla maschera da cui non può liberarsi, Iago è frustrato, rabbioso e vendicativo, e così affezionato all’immagine di perfezione che ha di se stesso da vedere distorto il resto del mondo.
È attraverso il suo racconto deformato che la tragedia della gelosia prende vita in Vicolo della Ratta, cambiando punto di vista e diventando la tragedia di una gelosia: quella di un uomo troppo pieno di sé per accettare il rifiuto e troppo disonesto per ammettere la propria inferiorità. Iago è un teatrante mediocre, invidioso del possente e generoso Otello, invidioso dell’intelletto e dello spirito di Cassio, invidioso di tutto ciò che lui non sarà mai.
“Se fossi Otello, non vorrei essere Iago”.
Con una litania volutamente scandita, Lorenzo è in grado di mostrarci tutta la piccolezza di un uomo mentre lo confronta con voci e personaggi diversi e immensamente vivi – il buffo Roderigo, il chiassoso Cassio. La sua voce si trasforma poi in quella remissiva di Desdemona, e poi ancora in quella potente di Otello, caprone nero mai veramente integrato che paga il prezzo della propria fiducia malriposta.
Arriva un momento in cui tutto sembra fermarsi: Desdemona è stata uccisa più e più volte, in un crescendo di ripetizioni; il Moro non è più; e dall’esterno della scena una voce chiede – implora – di avere più tempo. Di poter aspettare. Di essere un altro Iago, perché quello non gli appartiene.
Ma ciò che è fatto non si può disfare, e la catena richiama a sé quel personaggio condannato dalla propria natura, immodificabile se anche l’amore avesse abitato i suoi giorni.
In catene – alla fine come fu al principio – la iena Iago attende la sua sorte, quando ormai tutte le trame sono compiute e non c’è più spazio per la verità.
Una interpretazione valida e pulita, carica di una forza espressiva che “mostra” al pubblico tutto ciò che non c’è. Con pochi simboli (la maschera del caprone, le catene, l’abbigliamento militare), Lorenzo riesce a mostrare un intero microcosmo, senza mai scadere nello già visto o nella banalità di un’opera fin troppo nota.
E finalmente, per una volta, il protagonista non è il Moro, mera marionetta della propria storia, ma colui che da abile regista muove i fili: Iago, la iena; Iago, il fedele servitore non più fedele; Iago, la mediocrità dei giorni nostri che incolpa l’onestà e uccide la bellezza. Semplicemente, Iago.

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