Itaca è una pietra conficcata nel cuore, una reggia irraggiungibile, un tavolo dove finalmente un uomo e una donna riescono ad incontrarsi. Itaca è un’isola che abita il nostro immaginario. Quello che non ci aspettiamo, al Teatro Civico 14 è il mare. Così difficile, così rara, l’acqua in scena. Invece lì c’è tutto quel mare che cambia colore, quell’acqua in cui gli attori camminano a piedi nudi, quel Mediterraneo che è pieno di storie e di musica, di vita e di morte. “Di un Ulisse, di una Penelope” è l’ultimo spettacolo, per questa stagione, del Teatro Civico 14. Come ogni cosa, viene da lontano, da una idea condivisa, da un desiderio che ad un certo punto si trasforma in necessità. Raccontare la storia di un eroe che tutti conosciamo, a cui tutti dobbiamo qualcosa, e che ancora, secoli dopo, continua a farci domande. Con lui, accanto a lui, una donna che lo ha atteso, con un amore antico, sempre in dialogo, anche lei, con il mare.
Cosa succede quando si incontrano? Con Roberto Solofria, che cura la regia, ce lo siamo chiesti più di una volta. Ed è stato scambio di libri, di punti di vista, di idee. Ho scritto pensando a loro, a Roberto e Ilaria Delli Paoli, ai loro occhi, alla loro voce, ai loro modi di stare in scena. Ho scritto cercando la mia Penelope, il mio Ulisse, con lo sguardo fisso sul mare. È venuto fuori qualcosa di inatteso, per tutti.
Spazio X è diventato mare. Vero, e da immaginare. Come sempre, a teatro. Gli spettatori entrano e li trovano già lì, quasi sospesi, sedie altissime, tra loro un tavolo. È questa la scenografia essenziale e visionaria di Antonio Buonocore. Appena scende il buio, incominciano a guardarsi. È un attimo o un tempo lunghissimo, ognuno ha un modo di sentire l’attesa. Come nella performance di Marina Abramovich, le mani dei due si cercano, si sfiorano, si toccano. Come in un sogno, come nella vita, come in tutti i momenti in cui è capitato di essere Ulisse o Penelope. Il viaggio può cominciare. Ed è un viaggio spinto dalla musica di Paky di Maio che suona dal vivo, che accompagna Ulisse nei suoi tormenti, nel suo orgoglio di re, nella sua follia di guerriero. Viaggia incessantemente anche Penelope, ondeggiando in riva al mare, da anni in attesa e desiderio, in compagnia dei suoi pensieri, delle sue esitazioni. Cosa ha fatto di loro la lontananza? Venti anni di lontananza? Ulisse parla un napoletano antico, ha fatto sua questa lingua che del Mediterraneo ha accolto tante lingue. Tutte le lingue che ha ascoltato gli sono rimaste attaccate come alghe. E poi il napoletano sa esprimere al meglio tutte le sue emozioni, tutta la paura mescolata alla rabbia di chi può perdere tutto. E non può, non ora che lei è qui, a pochi metri da lui. Penelope regina cuore di ferro è ancora innamorata. Asseconda le onde del mare, che pure teme, perché gli ha portato via tutto quello che aveva. Nulla può la sua voce contro le seduzioni del mare. Ora ha bisogno di sapere. Ulisse resterà o andrà via? Vuole conoscere, finalmente nella verità, l’uomo che non ha mai smesso di aspettare.
Uno spettacolo dedicato al ritorno, il nostos, come lo chiamavano i greci, qui sentito come momento privilegiato per interrogarsi sulle ragioni del viaggiare, del conoscere, del rapporto con la propria terra, con le proprie radici. Di un Ulisse, di una Penelope sorprende e sospende gli spettatori scena dopo scena, nel continuo ondeggiare tra il richiamo del mare e la bellezza di Itaca, l’erranza di Ulisse e la fermezza di Penelope, la forza dei classici e la prepotente attualità dei sentimenti lontani nel tempo.
Marilena Lucente
Polis – anno II, numero 28, giugno 2017